(P) Suoni della Murgia & Officina 2012. SDM001

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Ascolta “Canzone per Rosalia”

01 –  Ammenazza u murt 5’26”
02 –  La munachelle 4’40”
03 –  Quanne lu ciuccie 3’32”
04 –  Chitaridd 4’04”
05 –  La massarì 3’50”
06 –  La saire de Carneveile 4’01”
07 –  Ciccie la Fanfeire 4’27”
08 –  Malacarn 3’46”
09 –  Trendacapille 4’23”
10 –  Mi chiamano brigante 3’40”
11 –  Canzona per Rosalia 4’40”
12 –  Lu bene mio 6’02”
13 –  Cascia e cummò 3’09”
14 –  Pupidde 2’53”
15 –  Storie e patorie 6’48”
16 –  Non expedit 2’48”

 

Ricerca sul campo, testi e note del booklet: Maria Moramarco.
Ricerca musicale, composizioni e adattamenti: Silvio Teot e Luigi Bolognese.
Prodotto da Luigi Bolognese e Silvio Teot.
Edizioni – Suoni della Murgia & Officina 2012 SDM001.
Su licenza Associazione Uaragniaun Altamura (Ba). © Uaragniaun.

Brani della tradizione popolare della Murgia tranne: 01 di Enzo Del Re; 04 – 08 – 11 – 14 di Silvio Teot e Luigi Bolognese; 10 di Otello Profazio; 12 di Matteo Salvatore; 16 di Silvio Teot e Alfredo Cornacchia; 05 di Silvio Teot, Luigi Bolognese e Alessandro Pipino.

I testi dei brani 11 e 14 sono composti da Maria Moramarco. Il testo di “Chitaridd” (4) è composto da Maria Moramarco attraverso la ricostruzione della vicenda storica di Eustachio Chita – detto Chitaridd – che ne ha fatto Francesco Nitti nel suo saggio “Religione e Giustizia in un canto popolare di Matera” (pubblicato da “LARES”, Organo della Società di Etnografia Italiana – Roma, Anno XXI, Fasc. I-II, Gennaio – Giugno 1955). Le fonti del Nitti sono alcune carte manoscritte conservate nell’Archivio del Comune di Matera e un testo anonimo di un cantastorie ritrovato nell’Archivio privato Gattini, intitolato “Miracolo del SS. Crocifisso”.

Registrato presso lo Studio Mediterraneo di Santeramo in Colle (Ba) da Massimo Stano (giugno 2011 – maggio 2012). Gli interventi di Joxan Goikoetxea sono stati registrati dallo stesso, presso l’Aztarna Studio di Bilbao (Spagna).
Missato da Massimo Stano, Silvio Teot, Luigi Bolognese presso lo Studio Mediterraneo.
Mastering & Editing di Massimo Stano.
Progetto grafico: Antonio Cornacchia (www.antoniocornacchia.com).
Art cover e illustrazioni: Pasquale Frisenda.

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“Un disco come il nostro non ha certo la pretesa di riscrivere la storia dell’Italia meridionale e neppure la velleità di emettere giudizi o sentenze su fenomeni sociali e politici come l’impresa dei Mille, la giustizia di classe esercitata nel Regno d’Italia, il brigantaggio o – più in generale – la “questione meridionale”. Per tutto questo ci sono i libri di storia che – nel bene e nel male – ne parlano ampiamente e da ogni punto di vista. La storia ufficiale – come si sa – è solitamente quella scritta dai vincitori ed è infarcita di retorica e, spesso, affollata di miti ed eroi.

 

“Malacarn” nasce invece dalla voglia di raccontare microstorie in musica, attraverso altri canti inediti dell’Alta Murgia e canzoni d’autore ormai dimenticate. Comunque storie piccole,

marginali, disperate e soffocate dal peso della “storia collettiva”, ma intense e sanguigne.

In “Malacarn” la narrazione incontra uomini e donne in fuga: antieroi, malavitosi, briganti, banditi,   amanti,   ubriaconi,   becchini   e assassini,   inseguiti   e braccati   dalla miseria,   dal pregiudizio e   dalla malasorte… Insomma “l’altra   Italia” su cui la Storia è   stata sempre impietosa, matrigna, crudele e – a volte – persino reticente.

Non c’è mai perdono per gente come il bandito materano Eustachio Chita che, dopo essere stato ucciso, viene ulteriormente umiliato quando i suoi resti saranno affidati a Cesare Lombroso e alle sue lugubrazioni sulla fisiognomica criminale.

Non c’è redenzione per uno come Giuseppe Musolino che scelse di farsi giustizia con la vendetta, alla maniera di quel   Conte di Montecristo

romanzato da Dumas. Musolino è infatti uno che – suo malgrado – diviene brigante, eroe popolare, super latitante, fino a quando lo stesso duce volle   farlo sparire dalle cronache dei giornali per l’assonanza col suo nome, ma che Giovanni Pascoli volle ricordare in un’ode.

Non c’è autentica pietà per le vicende della garibaldina Rose   Montmasson, ripudiata da Crispi e finita barbona per le strade di Roma. E che dire di

tante anime in pena scaraventate fuori dalla legalità per i loro delitti passionali? Neppure per loro c’è stato mai uno spiraglio di indulgenza, di riabilitazione sociale, di giustizia equa e garantista.

“Malacarn” è anche il racconto di una società diseguale attraverso le voci disperate di amanti in fuga dalle consuetudini o le voci di allegri becchini che descrivono le condizioni sociali dei loro “clienti” in un   gigantesco Spoon River popolare. Un universo connotato da fosche tinte derivanti dalla sopraffazione, dall’ingiustizia e dalla fame.

Nel mondo dei cosiddetti “subalterni” anche le figure femminili riescono a dare voce – almeno nel canto – alla loro viscerale ribellione alla propria condizione che mai accettano fatalmente. La loro reazione è espressa con molta forza delineando personaggi che sorprendono per la loro determinazione.

È il caso della   monachella che – costretta ad entrare in convento – pur accettando il suo inevitabile destino, non rinuncia al suo appassionato sentimento per il suo brigante e – con sfrontatezza e irriverenza – riesce a conservare intatto il senso profondo della sua libertà.

Lo stesso accade per Vincenzella che – rea di omicidio passionale – è convinta di aver agito per senso di giustizia e, non ritenuta capace di tale efferatezza, si appella addirittura al crocifisso e alla Madonna e non appare blasfema solo secondo le regole di un mondo alla rovescia (di tipo shakesperiano).

Questo lavoro, proprio per la complessità del tema, è caratterizzato da una grande varietà di stili, sia musicali che testuali: l’aulicità di brani come “La munachelle” o “La massarì” fa da contrappunto al tono scanzonato di “Cascia e cummò” o al sapore dissacratorio di “Storie e patorie”.Seguendo le orme dei “Malacarn” ci siamo allora imbattuti nell’umana pietà negata ai tanti che vivevano la loro miserabile esistenza ai margini della legalità e della morale comune, in una fase storica dell’Italia meridionale in cui anche la Chiesa – per un puro calcolo politico – scelse la formula del “non expedit”, abbandonando al loro destino di miseria e povertà (materiale e morale) migliaia di anime perse. Più che in un “ciclo dei vinti” ci siamo pertanto ritrovati in un “ciclo dei dannati”, popolato da anime perse che   nessuna “smisurata preghiera” è   mai   riuscita a   risarcire rendendole finalmente salve. Per loro abbiamo suonato in questo lavoro discografico e per loro ci siamo anche commossi.

 

Le Storie Maledette di Uaragniaun

di Ciro Derosa
da BLOGFOOLK MAGAZINE

Tra un disco in studio e un altro fanno passare almeno un lustro, quindi avere tra le mani un nuovo lavoro del trio altomurgiano è sempre un’occasione speciale. Uaragniuaun sono Maria Moramarco (canto), Luigi Bolognese (plettri) e Silvio Teot (percussioni a cornice e a calice, batteria, idiofoni); al loro fianco uno stuolo di affiatati collaboratori e di amici musicisti che li accompagnano in un percorso artistico che ha pochi eguali in Italia per rigore culturale, finezza sonora e soprattutto passione smisurata. Sul finire del 2012 hanno pubblicato Malacarn, un disco non banale, né per forma né per contenuti. Da parte loro la volontà, quasi una sentita necessità, di dar voce al “mondo dei vinti”, di presentare un’umanità varia di personaggi accomunati dalla marginalità, esclusi dalla storia ufficiale del farsi del nostro Paese o dannati per i posteri: si pensi a briganti e miserabili i cui crani, strappati alla pietas familiare, finirono nel laboratorio di Lombroso. Canti dell’Alta Murgia e canzoni d’autore di tre alfieri del folk d’Italia, alcune dimenticate altre per fortuna no, presentano questo mondo basso, incorniciate da musiche che attingono principalmente all’universo della tradizione orale del sud Italia ma non solo. Blogfoolk incontra i tre storici componenti di Uaragniaun, per sapere dalle loro voci della realizzazione di quest’opera che racconta storie di uomini e donne in fuga. 

Finalmente, un nuovo disco di Uaragniuan…

Maria Moramarco: Sono passati tre anni dall’uscita di Lamalunga-live. I periodi di “silenzio” sono per noi essenziali per riflettere sulle nuove produzioni: non avvertendo l’urgenza e la fregola di dover necessariamente elaborare uscite musicali a scadenza fissa , ci prendiamo il tempo di far maturare il momento in cui si decide di aver qualcosa da dire. Per Malacarn, ti posso dire con un proverbio murgiano che “avàjene maturèite l’anèspre” (ossia “erano mature le nespole”); avevamo il desiderio di comunicare, di condividere altri testi e un altro pezzo della nostra musica.

Qual è la genesi di Malacarn?

Silvio Teot: La scelta di lavorare sul disco nuovo ha come premessa la mole di materiali ancora inediti raccolti da Maria. Il pretesto per costruire un nuovo disco nasce nel corso delle celebrazioni dell’Unità d’Italia. In quella circostanza ci ritrovammo impegnati a ricordare Enzo Del Re, nella sua città, Mola di Bari, dove fu organizzato un concerto in sua memoria. Ci mettemmo a lavorare su un pezzo di Enzo, “Ammenazza u murt”, che abbiamo registrato e che poi è diventato il brano che apre il nuovo disco. Per i 150 anni avevamo idee di brani legati all’unità, in particolare ce n’è uno di nostra composizione (“Canzona per Rosalia”), che è la storia di Rose Montpasson. Pensammo a personaggi marginali, come Montpasson, l’unica donna ufficialmente imbarcata con i Mille di Garibaldi che era la compagna, poi moglie di Francesco Crispi, poi ripudiata dal Crispi che si risposò. La storia ci affascinò molto, perché lei finisce per essere abbandonata da Crispi quando è nominato Primo Ministro, diventa una barbona, gira per Roma con le medaglie garibaldine. Tra l’altro, in Sicilia – Crispi era siciliano – sarà chiamata Rosalia per anni. Quando muore, sulla sua tomba scrivono Rosolia Montpasson. Una storia che ci ha colpito molto, di un’eroina garibaldina che diventa una malattia dell’infanzia. Dalla sua biografia abbiamo ricavato un testo scritto da Maria, che abbiamo musicato io e Luigi. Abbiamo pensato a questo punto di procedere sul filone di fine Ottocento e recuperare le storie di un brigantaggio minore: in Basilicata c’è la storia di un brigante di Matera abbastanza noto, ci sono altre storie di brigantaggio della zone tra Basilicata e Puglia. Abbiamo recuperato anche la documentazione su queste storie. Però su questi materiali non ci sono musiche, così abbiamo lavorato di composizione. L’altra scelta è stata di non parlare del brigantaggio ufficiale, queste storie sono sempre sui margini: briganti veri scambiati per banditi e banditi veri scambiati per briganti. Il materano di cui parliamo era un bandito, in realtà, diventato un eroe perché derubava i possidenti. Ci piaceva l’idea di riprendere queste storie maledette: di donne che ammazzano per onore, per amore. E che, addirittura, non hanno problemi ad ammettere i loro delitti chiamando a testimonianza la Madonna, il crocefisso, la religione che si intreccia con l’omicidio passionale. Luigi Bolognese: Il titolo ci piaceva perché riassume quest’idea di storie di malacarne, come si dice da noi, di malavitosi oppure briganti. Abbiamo proceduto come fosse quasi una monografia, abbandonando altri materiali che ci riserviamo di incidere più in là. Silvio Teot: Sono storie di uomini e donne in fuga. Poi c’è la vicenda del brigante più noto d’Italia, che è Musolino, perché avevamo voglia di fare un omaggio ad un amico come Otello Profazio. Avevamo ripreso due brani, “Lu ben mio” di Matteo Salvatore e “Ammenazza u murt” di Enzo Del Re. Ci dispiaceva non prendere anche un suo brano, anche perché si sarebbe offeso… Ti racconto un piccolo aneddoto. Quando gli abbiamo detto che avevamo preso questi pezzi, lui ci ha risposto: “E dei miei?”. Noi gli abbiamo detto: “Ma tu sei ancora vivo!” E lui, di ritorno: “Ma io non sono superstizioso!”. Così abbiamo inserito anche “Mi chiamano brigante”. Sono tre omaggi a tre grandi cantastorie. D’altra parte la figura del cantastorie sta dietro a queste vicende anche di criminalità dozzinale.

Profazio, Del Re, Salvatore: tre personalità diverse, tre figure centrali nella cultura popolare del Sud. Con Profazio hai anche lavorato da giovanissima.

Maria Moramarco: Ho grande stima e affetto per Otello , ritengo che il suo lavoro meriti forse una maggiore considerazione ”in vita”, senza aspettare di alzare altari dopo. Otello, la cui carriera artistica inizia nella metà degli anni 50,quando il festival di Sanremo aveva pochi anni di vita, si presenta come uno dei primi “intermediari” tra la il mondo della cultura contadina e il mondo della nascente cultura di massa . Egli si è sempre saputo muovere nel mondo dello spettacolo , la sua esperienza è ricca di incontri con personaggi oggi mitici: Murolo , Modugno, Maria Carta, Rosa Balestrieri, Ignazio Buttitta. Ho conosciuto Otello alla RAI, e attraverso lui Pietro Basentini e Matteo Salvatore, con cui ho potuto fare alcuni trasmissioni. Di Otello, ammiro l’abbondanza e la varietà del suo lavoro, la sua capacità di interpretazione, la sua amara e paradossale ironia. “Molte delle persone che conosciuto sono morte e io non mi sento molto bene…”, dice nei suoi concerti; mi piace la fierezza con cui dichiara di essere un cantastorie. Abbiamo scelto “Mi chiamano brigante” perché perfettamente in tema con la nostra raccolta e perché in questo brano Otello è riuscito a ricostruire i punti nodali della vicenda del brigante Musolino, facendone un’autobiografia cantata.

Matteo Salvatore?

Maria Moramarco: Otello mi ha sempre parlato con reale affetto e considerazione di Matteo Salvatore, e mi ha spesso sollecitato ad “ascoltare” con un orecchio particolare Matteo, ritenendo fosse doveroso da parte mia fare qualche suo brano nei nostri concerti. Ti parlo degli anni ottanta , quando il repertorio di Matteo era letto da molte di noi in modo antifemminista! Effettivamente io devo ammettere in tutta onestà di apprezzare oggi di più Matteo, di quanto abbia fatto in quelle volte quando ho avuto l’occasione di stare a suo fianco. Oggi mi incanta la sua voce, il suo modo originale di suonare la chitarra e i suoi testi, mamma mia!! Davvero un poeta naturale, verace, capace di far poesia , senza sapere di poesia.

E Del Re?

Maria Moramarco: Non ho avuto modo di conoscere personalmente Enzo Del Re, non faceva parte del “carrozzone dei penultimi cantastorie” di Profazio , dove mi sono ritrovata con Franco Trincale, Nonò Salomone, Danilo Montenegro, ma Enzo non c’era pur avendo tutti i titoli per esserci . Enzo, incisivo, essenziale, sferzante e sorprendentemente dolce; abbiamo usato “Ammenazz u’ murt” nel nostro lavoro perché quel brano è il dipinto ironico di uno spaccato di vita di quell’ universo di outsiders di cui volevamo dire, uno “Spoon River” popolare.

Da dove provengono i testi tradizionali?

Maria Moramarco: I testi tradizionali provengono dal materiale della mia ricerca condotta sul territorio di Altamura negli anni che vanno dal 1978 al 1985, anni in cui era ancora possibile ascoltare canti dalla viva voce di informatori, sia pure in situazioni create per questo scopo. La mia tecnica di rilevazione , sempre la stessa: la continua frequentazione di persone con cui attivare il meccanismo del “ricordo” , metodo empirico poco ortodosso, poco scientifico, poco o niente rispetto ai noti criteri della rilevazione sul campo, ma un metodo che mi ha consentito di avere un materiale che non avrei potuto trovare diversamente, in un periodo in cui il canto contadino non era già più pratica consueta e la cultura televisiva stava già obliando e resettando tutto il patrimonio della tradizione orale.

Cosa ti colpisce di un testo: la storia narrata ? La musicalità delle parole? Le immagini che le liriche evocano? La loro traducibilità in musica?

Maria Moramarco: Nei canti di lavoro, di tipo monostrofico, mi affascina la liricità delle parole, la spontanea capacità di fare largo uso di efficaci metafore; da un punto di vista più strettamente musicale mi affascina in questi canti la modulazione della voce, il melisma, che sicuramente prescindendo da un motivo estetico rispondeva a determinati movimenti del corpo durante il lavoro. Ciò che invece mi colpisce nei testi di tradizione orale di tipo narrativo è sicuramente la storia , e ogni volta mi sembra di percepire la forte volontà di un gruppo o di una comunità di lasciar traccia di vicende vissute, in maglie di racconti che nessuno avrebbe potuto tessere in trame scritte e che quindi venivano affidate alla parola orale e al canto.

Maria, in questo lavoro sei anche autrice di storie dove protagoniste sono donne. Un nuovo ruolo, per te.

Maria Moramarco: Sicuramente un nuovo ruolo per me. Ci avevo timidamente provato con il brano “ Putresenella” passando dalla fiaba locale al testo di un canto, di cui mi è piaciuto molto il feedback. È stato usato come materiale scolastico, imparato, analizzato, eseguito, contestualizzato in un bellissimo lavoro condotto da ottimi docenti di una scuola media di Altamura, che si è concretizzato in una pubblicazione “Un viaggio con Prezzemolina” Questa volta ci ho preso un gusto particolare: la storia di Rosalia mi attraversa, mi disturba la prepotenza di un uomo che ricorre al sotterfugio del falso matrimonio per mettere a posto le sue cose, dimentico di come lei abbia rivoluzionato la sua vita in nome dell’amore per lui, mi disturba la beffa di come facilmente la storia anzi la Storia, dimentichi il nome di una donna. Questo personaggio mi ha particolarmente “avvolto”, la sua vicenda è di una impressionante attualità. Ad una rilettura più accurata dei testi, mi accorgo che nella elaborazione dialettale dei testi, mi ritornano in mente modi di dire e frammenti lessicali che appartengono a quel vasto frasario dei canti della tradizione che sono nella mia memoria. La strofa finale di “Chitaridde”: “Sia maledetta mamme , ca dejàule me fascì,ci jì na ‘nfuesse nèite ,na ‘nfuesse steite chessì dannèite” è un richiamo a dei versi di un canto sacro “U vèrbe de Dije”, dove vi è il drammatico contrasto tra anime beate e anime dannate che bestemmiano una esistenza disperata di cui non hanno colpa, così come alcuni versi di “Pupidde” fanno parte di nenie udite e assorbite.

Parliamo degli altri musicisti: troviamo un organico di fidati partner, nuovi collaboratori, di esperienza e giovani a voi molto vicini, e qualche ospite di riguardo.

Luigi Bolognese: Ci sono i musicisti con cui abitualmente collaboriamo artisticamente: Nico Berardi (zampogna, charango, quena), Filippo Giordano (violino), Pino Colonna (flauti dritti, ciaramella). Altri collaboratori sono Gianni Calìa (sax soprano), Gennaro Ciccimarra (chitarra elettrica), Carlo La Manna (basso fretless), Massimo Stano (programmazione), Paolo Clemente (basso acustico), Adriano Vulpio (contrabbasso). Ci sono i nostri figli: Michele Bolognese (mandolino) e Nanni Teot (tromba). Alessandro Pipino rappresenta la grande novità di questo disco che ci ha portato nuove sonorità: organetto, toy piano, tastiere, lame sonore. È l’ospite più impegnato, in otto brani. Altri ospiti sono in un brano l’organetto di Ambrogio Sparagna e il fisarmonicista basco Joxan Goikoetxea che ha già collaborato con noi. Poi c’è Rocco Capri Chiumarulo, cantante e attore, uno studioso della vocalità di Del Re e Salvatore che interpreta filologicamente, cercando proprio di cantare come Enzo.

Come si sviluppa la composizione della musica rispetto al testo?

Maria Moramarco: La musica è consequenziale , si adatta come un vestito cucito sulle parole, prima le cose essenziali poi man mano tutti i dettagli, dipanati attraverso un lavorìo di ricerca di colori musicali che questo o quell’altro strumento deve dare, nel dilemma di cosa togliere quando percepisci il senso di un brano “troppo pieno”. Non esiste mai un momento in cui dici: “I brano è perfetto”, apporteresti continue modifiche, come avviene quando i brani passano dallo studio al concerti live, dove ti accorgi davvero cosa a livello comunicativo funziona di più o funziona di meno. Luigi Bolognese: Il nostro è un lavoro di squadra insieme a Maria buttiamo giù il primo arrangiamento di base e poi con Silvio proviamo a mettere a fuoco delle idee sui temi musicali da usare come intro o come intermezzo, ovviamente non mancano le discussioni ma sempre con un intento costruttivo, non so come spiegarlo, ma solo quando decidiamo di fare un nuovo disco scattano particolari meccanismi creativi che portano a realizzare i nostri brani. Questo continuo confronto tra di noi è chiaro che porta via parecchio tempo e i tempi di realizzazione si protraggono per svariati mesi con Maria che spesso frena i nostri propositi quando questi vanno un po’ oltre gli schemi, ma in questi anni abbiamo imparato a conoscerci tra di noi e troviamo un equilibrio . Il collante di tutto questo è una profonda amicizia che lega noi tre da oltre 35 anni. Silvio Teot: L’approccio è strettamente legato alle storie, ai personaggi e alle situazioni… E ovviamente rispecchia i nostri gusti attuali. Ad esempio c’è la storia di un omicidio passionale (“La saire de Carnevele”) in cui ci parso adatto un arrangiamento che ammicca al fandango. Personalmente credo che mi abbia molto influenzato quello che ascolto con maggiore interesse da un paio di anni, ovvero Renaud Garcia-Fons: lo strumentale “Malacarn” mi è venuto dopo aver ascoltato un disco di Renaud. E poi ci sono le vecchie passioni per il progressive, per il basso elettrico di Jaco Pastorius che Carlo La Manna, in particolare, rievoca in maniera evidente nel finale di “Canzona per Rosalia” o nello stesso “Lu bene mio”. Questo disco contiene in fin dei conti canzoni e ballate. Questo significa che senti quasi naturale scrivere temi e incisi. E non è per nulla facile o scontato perché la tua creatività deve fare i conti con regole e sintassi musicali che questo genere di cose impone. Sei costretto a lavorare su tre accordi e quando ti riesce bene e il brano “cammina”, ha dinamica e funziona, la soddisfazione è enorme. In passato, negli altri lavori, sentivi di avere praterie e spazi enormi su cui lavorare partendo dalla ricerca di Maria e avendo a disposizione l’enorme lavoro che altri prima di noi avevano fatto su tarantelle, canti sacri o canti di lavoro… Insomma disponevi di modelli consolidati. Credo che questo nuovo disco segni una svolta abbastanza evidente per Uaragniaun.

Silvio ha citato Garcia-Fons, altri ascolti che hanno accompagnato la gestazione di “Malacarn”?Maria Moramarco: Ciò che ci ha accomunato è l’ascolto di Eleni Karaindrou, in modo particolare dopo il film “The weeping meadow”.

Come già in precedenza avete operato delle scelte particolari anche nell’artwork. Per U diavule eravate ricorsi ad Angelo Stano, disegnatore delle copertine di Dylan Dog. 

Silvio Teot: Abbiamo deciso di usare i fumetti per richiamare i tabelloni che utilizzavano i cantastorie che impiegavano i fumetti per illustrare le storie. Il fumetto è legatissimo alla canzone popolare, soprattutto al mondo dei cantastorie. Abbiamo coinvolto Pasquale Frisenda che è uno dei disegnatori della Bonelli, uno degli attuali disegnatori di Tex, che ha realizzato la copertina, i volti dei briganti e gli acquerelli.

Malacarn è un disco autoprodotto.

Luigi Bolognese: Il disco esce come Suoni della Murgia, che è il nome del festival che organizziamo da dieci anni. È il primo CD di una etichetta che accoglierà anche registrazioni antologiche del festival.

Ci parlate del festival Suoni della Murgia?

Luigi Bolognese: Il festival nasce come evoluzione di “Fieri di Fiore”, una rassegna cittadina sul canto sociale ad Altamura. Dal 2003, con Carlo Cardinale che era con noi, è diventata una rassegna di musica popolare internazionale che si svolge nei comuni dell’Alta Murgia, identificandoci con un territorio, tra fine luglio e inizio agosto. Un festival che ha avuto un tempo risorse istituzionali e oggi è in vita grazie alla presenza di uno sponsor e alla disponibilità anche grande di artisti che pur di non mancare partecipano alla rassegna. Silvio Teot: il fatto è che nelle edizioni del passato con una maggior possibilità economica abbiamo portato il meglio degli artisti italiani ma anche artisti stranieri mai venuti al sud come Renato Borghetti, gli Skolvan, Davy Spillane. Cosicché, in base a quello che avevamo fatto, molti artisti sono venuti anche a prezzi contenuti, vista l’alta considerazione ricevuta dal festival. Sul sito suonidellamurgia.net si trovano tutte le informazioni sulla storia e le edizioni del festival.

Sogni nel cassetto?

Silvio Teot: Non so dirti se Malacarn è un punto di inizio o anche la fine di un ciclo. A differenza di Maria e Luigi, che certamente continueranno a scandagliare i nostri archivi, visto che la ricerca di Maria non è stata ancora tutta pubblicata, io ho altri progetti che invadono altri campi sonori. Alla mia età comincio ad amare sempre meno esibirmi nei concerti e preferisco la composizione strumentale che probabilmente mi vedrà impegnato con mio figlio Giovanni (i suoi modelli sono Davis e Fresu). Lui ha già scritto una dozzina di brani che mi intrigano molto e che contiamo di incidere insieme ad altri musicisti. Poi chissà, magari non se ne fa nulla e facciamo un nuovo album con Uaragniaun.

Maria Moramarco: Intanto una buona diffusione di questo lavoro, visto che ci è costato veramente tanto in termini di energie ed impegno anche economico ( il lavoro è interamente da noi autoprodotto), ma a parte questo vorrei che l’Alta Murgia fosse un po’ più considerata nel quadro della musica di tradizione. La Puglia è una regione lunga e varia, offre spunti musicali e tematici di una certa rilevanza. Noi, e non solo noi, non ce ne stiamo con le mani in mano, noi “abbiamo poco appetito” perché non viviamo di questo lavoro, lo facciamo “per passione”. Lo affermo senza retorica, ma gli altri? L’Alta Murgia e i canti di questa zona esistono.

Lugi Bolognese : Fra i tanti sicuramente quello di vederci affiancati nel nostro percorso dai nostri figli e parlo di Michele figlio mio e di Maria e di Nanni il figlio di Silvio. Averli coinvolti quasi per scherzo durante la registrazione del disco e poi nei primi concerti di presentazione ci ha riempito il cuore di orgoglio. L’ altro sogno è quello di continuare con ostinazione con le nostre pubblicazioni a far conoscere in tutta Italia e non solo il repertorio legato al nostro territorio : l’Alta Murgia, uno dei miei figli ha scritto sulla nostra pagina di facebook : Uaragniaun in missione per conto dell’ Alta Murgia ed è quello che vogliamo fare, con tutti i nostri limiti, abbiamo cercato di partecipare a numerosi festival in Italia e all’estero e spero che Malacarn possa permetterci di continuare questo lavoro di diffusione nonostante le difficoltà dovute ad una crisi finanziaria gravissima che ha quasi azzerato la propensione alla cultura nelle istituzioni chiave comuni provincie e regioni. In Puglia è in atto questo interessante progetto culturale legato alla creazione di Puglia Sounds che con alcuni bandi sta tentando di finanziare iniziative culturali e musicali su vari generi tra questi rientra la musica popolare. Noi cercheremo di utilizzarli anche se spesso ci sono dei requisiti che anche ad un gruppo longevo come il nostro con 8 produzioni discografiche alle spalle prodotte negli ultimi 22 anni e decine di compilation, impediscono di avere un finanziamento su un nuovo CD se non si sono prodotte nel periodo 2010-.2012 almeno due pubblicazioni discografiche. Cosa che francamente non riesco a capire! La conseguenza di tutto questo è la mancanza nelle compilation prodotte da Puglia Sounds del repertorio ricercato da Maria Moramarco in questi ultimi 35 anni, del repertorio dell’Alta Murgia.

Uaragniaun – Malacarn (Suoni delle Murgie)

Un titolo forte segna il ritorno del trio altamurano, a cinque anni di distanza dal precedente disco in studio, U diavule e l’acqua sante (Felmay), cui sono seguiti il live Lamalunga e il volume, Paràule, con cui Maria Moramarco, anima vocale dell’ensemble-laboratorio Uaragniaun, ci consegnava i canti di una vita, lei ricercatrice, mediatrice ed interprete della cultura orale dell’Alta Murgia. L’attesa non è stata vana, dal momento che se è vero che questo concept album conserva tutta l’essenza dei lavori di Uaragniaun – testi tradizionali, frutto di una decennale frequentazione sul campo e composizioni d’autore di giganti del musica popolare del Sud, ma anche liriche della stessa Maria che di quell’humus popolare sono pieni con naturalezza che ha pochi eguali in Italia – Malacarn si apre a spunti innovativi sul piano compositivo. La parte strumentale, governata da Teot e Bolognese, intreccia corde, percussioni, mantici, fiati popolari, ottoni e strumenti extra-popolari, sempre al servizio della vocalità appassionata, profonda, calda e luminosa di Maria. Come già in passato, arrangiamenti raffinati, quanto eterogenei per ricchezza timbrica, che contemplano riferimenti alla musica pugliese (ninna nanna, tarantella), campana (tammurriata), alla canzone da cantastorie, con immancabili spruzzi di jazz e rock, sapore mediterraneo con propensione iberica, inflessioni colte e barocche, contrappunti stilistici e di toni: dai modelli solenni ai moduli dissacratori, dalle canzonature ai passaggi aulici, dalle immagini dolenti alle invettive, tutto teso a costruire un affresco vivido di microstorie in musica che gettano luce su murder ballads, violenze e soprusi subiti e perpetrati, ingiustizie patite e mai riparate, un “ciclo dei dannati”, un canto per anime perse, celebrate senza retorica revisionistica sudista o revanchista. Non sentiamo il bisogno di segnalare un brano in particolare tra le sedici tracce dell’album, lasciatevi trasportare in questo racconto di storie di un’altra Italia.

Ciro De Rosa

 

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recensione loris bohm

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